MADAGASCAR La terra ibrida odorosa d’Africa

Ci sono terre che la geologia ha reso incerte, ne ha fatto orizzonti di fuga per alcuni o lande agognate per altri; terre in cui gli incroci anche degli odori hanno prodotto esiti inaspettati. Il Madagascar è una lista di cose, di immagini, di istanti, ciascuno germe di una storia. Mi ritrovo ad uscire dalla Patisserie Colbert, al centro di Antananarivo. Porto, una sull’altra, due torte in scatole di cartone, la piccola sopra la grande. Sul bianco opaco sfilano le lettere dorate col nome della pasticceria. Indugio sulla soglia nel timore di inciampare, sentendo profumo di cioccolato alle mie spalle pronta a percorrere le strade della capitale. Le coltivazioni di cacao sono al sud, tuttavia l’aroma di quei frutti si sprigiona qui ed è su questa soglia dove odore di cioccolato, vaniglia, terra umida e smog si scontrano e fondono che prende forma la mia idea del Madagascar. Un’idea che mano a mano appunto la sera in una sequenza di frasi sul diario: spine di cristo con fiori rosso fuoco … carri lignei … alluminio fuso … montagne di carote … terra color caffè …Qui e lì nel corso del viaggio il cioccolato si impone. Cioccolatini allo zenzero fanno la loro comparsa sul tavolo una sera a cena, regalo di un ospite. Quando torno a comprarne e chiedo il nome alla signora che li vende, mi risponde: può chiamarmi Madame Chocolat, come tutti! Qui a Antsirabe la sera all’hotel Camelia fa freddo, è la zona più gelida del paese. Vorrei accendere il camino ma non c’è legna. C’è il carbonaio lì fuori e anche lui mi dice che non ce n’è, ma forse… è ormai tarda sera quando entra, intirizzito dal freddo, coperto da un giaccone largo e vecchio, stringendo tra le braccia alcuni ciocchi di legno. Chissà dove li ha trovati. Si avvicina al camino e traffica coi pezzi piccoli e la carta. Il fuoco inizia a dare luce, il carbonaio scompare, furtivo come un fantasma e torna ad essere un pezzo di buio nell’oscurità. Proseguo per la costa occidentale dove lame di roccia nere e affilate come coltelli, gli Tzinghi, si avventano contro il cielo, fitte e appuntite. Lungo il fiume che lambisce i coltelli di pietra vedo una canoa, bella come nessuna. Mi accade di rimanere estasiata di fronte a legni così espressivi, ad alberi plasmati dall’uomo con tale perizia come se lo scalpello avesse compreso e reso la forma che quelle fibre lignee avevano immaginato per sè, quando non sarebbero state più albero. Lunga, affusolata, levigata, simmetrica quanto la natura consenta…Non ho mai visto legno più bello solcare l’acqua, silenzioso, delicato, arezzevole.

 Dalle punte aguzze, una pista africana e polverosa mi riporta a quel fiume navigato e abitato dalle nostre tende, un fiume che ha un nome che sembra uno scherzo, una battuta, un’esclamazione: Tsiribihina! Oltre quel fiume, verso la costa, ecco i baobab. Una sera rimanemmo estasiati ad osservare il sole scendere dietro i giganti e solo una fortuita rotazione del volto, a causa di un rumore, mi fece accorgere che una luna enorme e accecante stava salendo dalla parte opposta, sminuzzata dalle forme di altri giganti. Poi ci furono i fuochi davanti alle capanne nel buio imminente e le palme riflesse sulle risaie nell’ultimo rossore spento e nel primo biancore acceso.

Morondava, l’oceano e le sue maree lunghe; l’acqua si fa desiderare e rumoreggia da lontano. Un volo mi porta nel paradiso tropicale di Anakao sul canale di Mozambico; l’Africa è giusto dall’altra parte e mi convinco che questa terra che alcuni sentono ibrida, racconta solo nei volti le storie d’oriente ma è tutta figlia d’Africa o almeno desidero pensarlo. Anakao si lascia assorbire nell’immobilità turchese. Ci sono barche di pescatori col bilanciere e vele oblique che portano in giro ritratti di Cristi e Madonne o bottiglie profane di Coca cola, iute che hanno accolto patate e farine. Capolavori dell’arte del riutilizzo e ogni combinazione in mezzo a quel verde acqua è perfetta. Le spiagge sono disseminate di conchiglie candide e quando la marea arretra le stelle marine rosse occhieggiano in trasparenza.

In un’alba andai a piedi al villaggio di Anakao e mentre questo intorpidito mondo si svegliava intorno ai fuochi, sulla battigia scesero i bambini e fu una fila di pipì in faccia al sole nascente. Mentre vago con la mente in quell’isola spersa laggiù in fondo, ripenso ad un ghiacciolo arancione illuminato dagli ultimi raggi del tramonto. Lo teneva in mano una bimba che con altre due giocava e rideva davanti ad una casa di legno per metà verde acqua e per metà grigia. Sembrava una scena cubana, chissà perché, anche se ero all’uscita della foresta pluviale di Ranomafana. Un lemure proprio qui nel folto intricato della primaria aveva deciso un giorno di saltellare di ramo in ramo al mio fianco come a prendersi beffe del passo impacciato degli umani. Il parco dell’Isalo lascia traccia col vento. Rocce e palme color acciaio, erbe color ottone antico. Una passeggiata a cavallo tra i giardini e si leva un vento che imprime alle foglie la forza per sbattere l’una contro l’altra. Ogni foglia reagisce alla spinta improvvisa del vento e produce un fruscio diverso che mi prende mentre lassù, sul garrese, mi guardo intorno e mi pare di sentirmi foglia. Torno verso la capitale attraversando villaggi di poche case e miseria. Sulla strada incedono piano carri di legno con ruote enormi come nel far west. Ne seguo uno e mi ritrovo in un cortile dove fondono l’alluminio. Lo vedo colare, liquido e argenteo, convinto, nonostante l’apparenza incoerente, a prendere la forma di una pentola o di un mestolo.

Sul Madagascar insistono nuvole da viaggio, giuste per chi se ne va in giro vagabondo e ritrova nel loro moto lo stesso nomadismo. E’ fine agosto. Sul ciglio della strada sono sparsi e venduti quintali di carote. L’intero raccolto arancione viene steso dove l’asfalto sfuma nella terra rosso sangue. Solo in basso si intravedono tessere di risaie verdi nel mezzo di montagne brulle: geometrie fertili e rare. In questa parte del paese tra colline spoglie e terre arate da buoi, mi potrebbe capitare di assistere al rito del Famadihana, la riesumazione delle spoglie dei morti ma è sempre un’incognita. Mentre il pulmino sale e scende come un modellino di latta tengo lo sguardo all’erta. Un assembramento sul fianco della montagna, gente che si incammina. Il morto c’è, danzerà avvolto nel sudario bianco e in stuoie di rafia sorretto da uomini euforici e ubriachi. Anche al morto verrà offerto cibo e alcool per far festa tutti insieme e convincersi che anche da morti, non è poi così male. Tanà è vicina e ripenso ad alcune donne incontrate nel corso del viaggio, i capelli neri arrotolati in due bigné ai lati del capo. Avevano la faccia impiastricciata con argilla e pasta di corteccia per farsi belle. Ah, le vie della bellezza, imprevedibili e infinite.

(Elena Dak)

 Un viaggio in MADAGASCAR, UN’ISOLA, UN CONTINENTE (KEL 12)

 

1° giorno – Volo per Antananarivo via Parigi.

 2° giorno – Arrivo a Tana e partenza per l’altopiano centrale: Ambatolampy e Antsirabe. Continuazione verso occidente per Miandrivazo.

 3° e 4° giorno – In barca lungo il fiume Tsiribihina.

 5° e 6° giorno – Belo-sur-Tsiribihina e gli Tsingy di Bemaraha.

 7° giorno – Belo-sur-Tsiribihina.

 8° giorno – L’avenue des baobabs e il mare.

 9° giorno – Da Morondava a Tulear.

 10° giorno – In barca per Anakao.

 11° e 12° giorno – Le spiagge di Anakao e l’isoletta di Nosy Ve.

 13° e 14° giorno – Il Parco Nazionale dell’Isalo.

 15° giorno – La piccola foresta di Anjaha e la cittadina di Ambalavao.

 16° e 17° giorno – La città di Fianarantsoa e la foresta pluviale di Ranomafana.

 18° giorno – Verso nord, lungo la nazionale n.7, fino a Ambositra.

 19° e 20° giorno – Continuazione per Antananarivo e partenza per l’Italia.

Condividi questo post

    Leave a Reply