Iran, un giro nella Valle degli Assassini

Sono andato a fare un giro nella Valle degli Assassini. “Bravo, e non avevi nient’altro di meglio da fare?” obietterebbe opportunamente l’onnipresente benpensante cultore della sicurezza. Certamente no, rispondo io, e con fierezza, e non solo a lui, ma a tutta una immaginaria giuria, e rilancio: giusto il posto, perfetto il momento. E se volete un colpevole, o signori della corte, prendete Marco Polo, per cominciare. Da ragazzo, come hanno fatto innumerevoli ragazzi – e non solo – per generazioni, divoravo le pagine del suo Milione, finché trovai colui che non doveva più lasciarmi, che non mi ha permesso mai che lo dimenticassi: il Vecchio della Montagna. Conoscete la storia?

Perché di storia si tratta, e nei due sensi: nel primo, con la “esse” maiuscola, vale a dire verità, cose realmente accadute, e nel secondo, esagerazioni, abbellimenti, frottole addirittura, se volete, ma tanto belle. Perché c’è tutto questo, in Marco Polo, e non per mala fede o voglia di esibirsi abbindolando il prossimo. Marco racconta di tutto, sapete: quello che vede con i suoi occhi, quello che trova, ma anche quello che gli narrano, quello che si dice, e tante altre cose. Ve lo immaginate alla sera, nel caravanserraglio, mentre si stringe insieme agli altri intorno al fuoco, e fuori c’è la notte, il deserto, e la strada ancora da fare, l’ignoto del tempo che verrà…? Quando, attraversando la Persia, passa vicino alle montagne dell’Elburz, a sud del Mar Caspio, non uno, ma “più uomini”, gli raccontano di un gran signore dei tempi che furono, il “vecchio della montagna” , che in quella regione aveva un castello imprendibile che difendeva l’ingresso di un meraviglioso giardino che lui stesso aveva creato, con all’interno alberi con ogni tipo di frutta, e ruscelli artificiali, alcuni con acqua, altri con miele, altri ancora con vino. E poi, le donne. Sì, fanciulle bellissime e dai modi incantevoli, e che sapevano cantare, suonare, ballare. Insomma, il paradiso, il paradiso islamico realizzato sulla terra.

Anzi, se andate a leggere il Corano, o signori della giuria, troverete che in molti capitoli del Sacro Libro dell’Islam si parla del paradiso, ma in forma molto poetica e incline al misticismo, in punta di penna, poco concedendo alla descrizione: il nostro Marco, invece, ci racconta di giovani vigorosi rapiti per ordine del Vecchio, drogati con l’oppio, portati nel giardino dove, al risveglio, sono circondati da tutti i piaceri del paradiso. Tutto quello che può lusingare i sensi è per loro, anche il tempo sembra essere al servizio della bellezza e di tutti i godimenti immaginabili. Ma viene il giorno in cui il Vecchio presenta il conto: uno dei giovanotti si riveglia – sempre complice l’oppio – fuori dal giardino, e c’è lui, il padrone del paradiso, che si presenta come un gran capo religioso dal potere di far assaggiare il paradiso e di farvi anche ritornare i suoi obbedienti fedeli.

Il prezzo per il definitivo ritorno in paradiso è una missione e, come si può immaginare, di quelle di sola andata: l’omicidio di una persona eccellente, di quelle potenti e sotto scorta. Dal suo inaccessibile castello, il Vecchio commina sentenze di morte a distanza, che il più delle volte vengono eseguite. Non ci credete? Certo, il paradiso era tarocco, ma le morti proprio no, ce lo conferma la Storia, quella con la “esse” maiuscola: il 14 Ottobre 1092, mentre sta viaggiando sulla sua portantina da Isfahan a Baghdad, viene pugnalato a morte Nizam al-Mulk, primo ministro del re selgiuchide Malik Shah I. L’assassino ha ingannato la scorta travestendosi da derviscio, cioé da sant’uomo islamico dedito all’ascesi, alla preghiera, alla poesia.

Una cinquantina di altri personaggi ci lasciano la pelle negli anni seguenti, ma attenzione: questo è solo quello che succede con il primo Vecchio, e ce ne sono otto, di Vecchi, una dinastia vera e propria, che dura 166 anni, dal 1090 al 1256. Beghe interne tra feudatari locali, regolamenti di conti fra sette religiose? No, signori della giuria, bensì politica internazionale e, naturalmente, risvolti economici: siamo su una delle grandi rotte carovaniere, una delle arterie attraverso le quali l’Asia ha comunicato e commerciato per secoli, e i Vecchi si sono dedicati a fortificarsi sulle montagne non solo in Iran, ma anche in Siria, e senza il loro permesso, da quelle parti non si passa. Ma chi sono? Ve lo racconto, ma mentre entro nella valle dove è iniziato tutto, per poi salire, toccare, andare a vedere con i miei occhi. Parto da Qazvin, alle 8 del mattino, con l’autista Amin e il suo furgoncino, la strada è ottima ma tutta curve, si va in montagna: dopo neanche un’ora l’altimetro segna 2300 metri, e sotto di noi la valle dello Shah Ruud è infagottata da nuvole come nelle fiabe avviene per le terre misteriose, e magari cattive. Ma presto se ne vanno, e quando scendiamo per attraversare il fiume la luce è abbagliante, e forte è il profumo dell’erba e dei fiori, ed ecco che a una svolta la vedo, e posso pure dar ragione ad Ala-ad-Din Juvaini, persiano del XIII secolo, di professione letterato: “Alamut è una montagna che assomiglia a un cammello inginocchiato, con il collo appoggiato al suolo.

C’è un sentiero erto, e ancora ampio, e quello l’ho già superato di slancio, con gli occhi fissi su questa rupe favolosa, da lontano sembrava liscia come una lavagna, e anche il colore ci assomiglia un po’, ma ecco che cominciano i gradini, a allora mi do una calmata. Tanto Alamut non scappa, è qui, finalmente! Se ad ovest la parete è liscia, un baluardo di 180 metri, a est la conformazione del terreno permette di salire, ma in un passaggio sempre più stretto ed obbligato, intagliato nella roccia che ora vedo bene: è puddinga, o più modernamente, conglomerato, una miscellanea detritica molto discontinua e friabile, qui arrampicarsi è puro suicidio.

Come doveva essere salire al castello di Alamut senza essere invitati: un gioco al bersaglio molto facile anche per arcieri mediocri, e non pare proprio, leggendo le testimonianze storiche, che i Vecchi della Montagna fossero di bocca buona nella scelta dei loro uomini. Quando sono a metà altezza della rupe, ecco i resti di una porta fortificata e, se guardo a destra e alle mie spalle, vedo da dove gli arcieri potevano ancora prendermi di mira. Continuo a salire, un gradino dopo l’altro – saranno trecento ma, chiedo scusa, o signori della giuria, non li ho contati, sapete, l’emozione – e adesso, proprio di fronte a me, la montagna è bucata. No, non è un espediente letterario, e potete anche chiudere il libro

di Marco Polo, ora non serve più. Hanno bucato la rupe da parte a parte, da est a ovest, per vedere meglio la valle, e creare una postazione in più per le sentinelle. E non siamo ancora in cima: poco oltre gli archeologi hanno appoggiato alla vetta della rupe una scala per superare l’ultimo tratto, e mentre salgo vedo che la montagna di roccia traditrice diventa muratura, e poi palazzo, e poi colonne di una moschea che emerge dalla penombra di una cavità, ed ecco, siamo alle soglie del palazzo del terribile Vecchio. Per meglio dire, di ciò che ne rimane. Nel 1256 i Mongoli di Hulagu passarono di qui come un rullo compressore, e nel Dicembre 1256 Alamut e il potere dei Vecchi cessarono di esistere, per opera di “uomini” che consideravano l’avversità una piacevole bevanda, e che non si curavano della sofferenza”, scrive al-Juvaini.

Ora sono sulla cima, che è come una terrazza intorno alla quale gli occhi incontrano solo il vuoto. E capisco il nome. “Alamut” significherebbe “il nido dell’aquila” o anche “l’insegnamento dell’aquila”. Immagino l’intelligenza acutissima, e la forza carismatica che dovevano essere possedute dal primo Vecchio, Hassan al-Sabbah, un capo religioso Ismailita – una branca nata dagli Sciiti che i Sunniti considerano eretica – che, da ricercato in fuga e senza mezzi, in pochi anni fa tanti proseliti con la sua predicazione, capisce il valore di questo nido d’aquila, e concepisce un piano audace quanto crudele, ma vincente per più di un secolo e mezzo.

Chi è perseguitato perché in minoranza, e ribelle, ha un’arma efficacissima che fa dimenticare la sua presunta debolezza: la paura. Gli Ismaeliti erano pochi, non potevano mettere un esercito in campo, sarebbero stati spazzati via; ma castelli su queste montagne sì, li potevano difendere, e i potenti della terra, da allora, seppero che la morte li poteva raggiungere persino nel loro letto, con una lama comandata da quassù. Da qui venne ordinata la morte di Raimondo II, Conte di Tripoli, valoroso combattente Crociato e primo cristiano a soccombere ai sicari del Vecchio, era l’anno 1152; poi troviamo un altro cadavere ancor più famoso, Corrado del Monferrato: il 22 Aprile 1192 gli comunicano che sarà incoronato Re di Gerusalemme, il 28 dello stesso mese viene massacrato nel cortile del suo castello a Tiro, e mentre si trova in mezzo ai suoi uomini. Chi non conosce Saladino? Quello che nel 1187 butta fuori i Crociati da Gerusalemme, avete presente, o giurati? Ebbene, nel 1176 va ad assediare il castello siriano di Masyaf, dove risiede Rashid ad-Din Sinan, un luogotenente del quarto Vecchio, al quale evidentemente, in fondo, Saladino deve riuscire simpatico. Nella notte del 22 Maggio, Saladino si sveglia nella sua tenda, al centro del campo, e trova due focacce ancora calde, non certo portate dal suo scudiero, e conficcato in esse con un pugnale c’è un messaggio, che lo invita cortesemente – per il suo stesso bene – a togliere l’assedio. E Saladino, capita l’antifona, se ne va. E fa bene, perché addirittura anche due califfi di Baghdad ci hanno già lasciato la pelle: Al-Mustarshid nel 1135, e il suo successore Al-Rashid nel 1138. Insomma: se non vai d’accordo con il Vecchio della Montagna, non pagano i tuoi soldati e i suoi morendo sul campo di battaglia, ma paghi tu con la tua vita, non importa chi sei o quanto sei protetto.

E il paradiso? Insomma, l’hai trovato il giardino del paradiso?” mi chiede un sospettoso. No, quassù non c’è di sicuro lo spazio per quello che racconta Marco Polo, che cosa crescerebbe su questa roccia scabra? Ma c’è qualcosa di ben più vitale per una fortezza: quattro vasche piene d’acqua, perfettamente coibentate. Affacciandomi dallo spigolo nord della rupe, che qui sembra la prua di una nave, vedo sotto di me, a lato di un villaggio, un’oasi, sì: è una macchia di verde denso e rigoglioso. A proposito, Hassan al-Sabbah promosse la costruzione di canali per aumentare la produzione agricola in queste terre, che diventarono tutte suoi feudi; e più terra produttiva, non vuol forse dire più cibo e non solo per gli abitanti, ma anche per chi doveva difendere i castelli durante gli assedi? Sappiamo che era versato in varie branche del sapere, e che nutriva un amore viscerale per i libri, che faceva ricercare, copiare, acquistare anche da molto lontano, e senza badare a spese. Un intellettuale, insomma, come furono tutti i Vecchi, e la biblioteca di Alamut, una generazione dopo l’altra, divenne uno scrigno di sapere inestimabile. Questo si sa per testimonianze oculari di quei tempi, rese anche da detrattori degli Ismaeliti.

“Ma se drogavano la gente! E l’oppio, dove lo mettiamo?” No, severi signori della giuria, aspettate: nemmeno i nemici del Vecchio di turno parlano mai di droga, e la cosa pare sia nata grazie a uno storico arabo, Abu Shams, che raccolse la battuta detta nel 1122 dal Califfo Fatimide al-Amir a proposito degli Ismaeliti Siriani, che lui disprezzava: li chiamò “hashishi”, vale a dire marmaglia di invasati, fanatici. Non li accusò apertamente di drogarsi, e del resto, ve li immaginate voi degli allucinati, in preda a qualche sostanza stupefacente, concepire e realizzare piani audacissimi quanto ingegnosi? Ci vuole gente fredda, addestrata, il coraggio sino alla follìa non basta quando bisogna superare una scorta, e penetrare nei luoghi più difesi senza suscitare il minimo sospetto. Il nome sì, quello appiccicato con disinvoltura dal Califfo, è rimasto: e “assassini” da allora, si dice ancora. Scendo a fatica da Alamut, e non parlo del caldo o dei gradini, ma della sua bellezza, di questa visione aerea che mi risucchia e mi invita a restare. C’è il resto della valle da vedere, e alla fine corro a cercare il furgoncino, ma dov’è Amin? Sento che mi chiama, è all’ombra dell’oasi, e mi fa grandi cenni con aria allegra. Ai suoi piedi, oscilla dolcemente nella corrente di un piccolo canale di irrigazione un giallo melone cantalupo, che ora mangiamo insieme, e mai, vi assicuro, ne ho assaggiati di così buoni.

La giornata è diventata caldissima, ma l’acqua è molto fredda, perfetta per il melone che…ma come, è già finito? Amin ne ha preso metà, e vedo che lo sta offrendo a un apicoltore che, poco più in là, sta smielando alcuni alveari. Una bella contrattazione con sfoggio di eloquenza, nel più puro stile persiano, ed ecco che il melone aiuta Amin a spuntare un buon prezzo per un tipo di miele del quale si dicono meraviglie, e lui mi strizza l’occhio con complicità.

Bene, non ci sarà il paradiso, ma il miele e la frutta sì, ed eccellenti! Forza Amin, metti in moto, andiamo a cercare Maymundiz, un altro castello Maymundiz sembra però protetto dal mistero, e dopo molto domandare e girovagare, alla fine Amin mi lascia all’inizio di una mulattiera impossibile per il suo furgoncino, e salgo a piedi, accelerando via via perché il tempo incalza, di ore di luce ne sono rimaste poche. Un corridoio di ciliegi fitti fitti, carichi di frutti acerbi, e siamo in giugno, mi regala un’ombra – questa sì – da paradiso, ma dopo duecento passi finisce, e mi trovo al cospetto di una montagna spettacolare anzi, impossibile, una allucinazione: perché quello che vedo è un frammento di Dolomiti, stesso colore, stesse spavalde, bellissime pareti. E il sentiero che continua a salire, spietato, sotto il sole. “Maymundiz? Maymundiz, eh!!” mi dice un pastore, e poi scrolla la testa, mi guarda come fossi matto, gesticola come a dire che è irraggiungibile, che non ce la farò mai, che peccato non parlare persiano! E alla fine, prendo una decisione: se insisto qui, non arriverò mai all’eroico castello di Lambsar prima del tramonto, e anche lassù bisogna salire una montagna, e non voglio assolutamente perderlo.

Via, indietro, rotolo a valle, e ritrovo Amin che banchetta con un cesto di ciliegie, queste però belle grandi, e mature, e dolcissime. Sotto Lambsar la valle è molto ampia, lungo lo Shah Ruud – e mi stropiccio gli occhi, sì, è vero quello che vedo – stanno coltivando risaie, ce ne sono tante, e uomini al lavoro, sembra un pezzetto di Vietnam. Ma basta salire un poco di quota, oltre i canali fatti dall’uomo, che questa roccia arcigna fa la steppa, e poi il deserto.

Lambsar ha resistito un anno all’assedio dei Mongoli, che non erano certo di passaggio per fare un pic-nic, qui ci si erano incattiviti proprio. Perché a Lambsar, signori miei, se eri il nemico, crepavi prima ancora di arrivare a vederlo, il castello. Il lato ovest è come abbracciato, protetto dalla montagna, il lato est confina con un baratro franoso, l’unico accesso era una collezione di rupi, pendii, svolte a gomito nella roccia viva, un labirinto della morte su cui le macchine d’assedio nulla potevano perché non puoi fare la guerra a un intero monte, nemmeno se sei Mongolo. Anche qui, un paradiso, ma per gli arcieri difensori.

Il castello lo vedi all’ultimo momento, a una svolta: sarà perché sono solo, il sole tramonta, l’unica voce è quella del vento, ma trovo che assomigli a un teschio che mi fissa, con quelle cavità tenebrose che un tempo furono finestre, e porta. Dentro, signori della giuria, non c’è niente, a parte il silenzio protetto da mura spesse più di un metro. In questo castello, che era la montagna intera, gli Assassini respinsero, fieri, ogni offerta di aver la vita salva, ogni ordine dell’ultimo Vecchio, già in balìa dei Mongoli, ogni minaccia di massacri: furono vinti, però, da un nemico che la loro montagna non fermò, il colera.

Nel 1257, un anno dopo la resa di Maymundiz e di Alamut, i Mongoli riuscirono a penetrare all’interno, dove già regnava la morte. E anche Lambsar diventò un deserto di rovine. Il sole tramonta, e saluto gli Assassini mentre, ai lati del sentiero e fra i ruderi, appaiono frammenti di vecchissime ceramiche color cielo, quasi un sussurro dall’aldilà di quella potenza, di quella bellezza che furono le padrone della valle e di queste montagne.

Ormai resta solo la luce riflessa dal cielo quando sbuco di nuovo sulla strada, e cerco Amin.. ma dove sarà finito? Poi vedo un focherello, giusto dietro a una roccia, al riparo del vento: e lui è lì, seduto a gambe incrociate su un tappeto, e davanti a lui c’è la teiera, un piattino con datteri e pistacchi, mi sorride e con gesto quasi sacerdotale mi invita a sedermi, e mi dice “Agha”.

Ah, i Persiani… che bello quando ti dicono Agha, è come quando in Argentina ti dicono “caballero”, ed è la stessa cosa, ti senti un signore dei bei tempi andati, quando un saluto era già un rapporto, una cultura, una storia. Come aitempi di Marco Polo…

Allora, signori della giuria, ritornerete con me nella Valle degli Assassini?

 

Un viaggio in Armenia e Iran,

PASSAGGIO DA OCCIDENTE A ORIENTE (Kel 12)

 

1° giorno – Partenza da Milano per Yerevan con scalo a Vienna. Arrivo nelle prime ore del mattino.

2° giorno – Yerevan, la “città rosa”. Giornata dedicata alla visita della capitale.

3° giorno – I dintorni di Yerevan: il tempio di Garni e il monastero di Geghard, la cattedrale e le chiese di Etchmiadzin, il tempio di Zvartnots.

4° giorno – Il sud del paese: il monastero di Khor Virap e la regione vinicola di Areni, il monastero di Noravank e il monastero di Tatev.

5° giorno – Passaggio del confine con l’Iran. Il monastero armeno di Santo Stefano nella regione dell’Azerbaijan iraniano.

6° giorno – Visita di Tabriz, capolugo della regione e capitale durante il periodo mongolo. Proseguimento per Zanjan.

7° giorno – Escursione a Sultanieh e visita del mausoleo di Uljetu. Proseguimento per Qazvin.

8° giorno – Verso Alamut, la culla della Setta degli Assassini. Pernottamento in campo mobile.

9° giorno – Esplorazione della Valle degli Assassini e proseguimento per Teheran.

10° giorno – I musei della capitale. In serata volo per Shiraz.

11° giorno – Persepolis, la capitale dei re achemenidi, e i bassorilievi sassanidi di Naqhsh-e-Rostam.

12° giorno – Pasargade e la tomba di Ciro il Grande. Proseguimento per Isfahan.

13° giorno – Isfahan, la “Metà del Mondo”, la città-sogno dell’Islam, capitale dello Scià Abbas.

14° giorno – Continuazione delle visite di Isfahan e dei suoi gioielli architettonici e volo per Teheran.

15° giorno – Partenza da Teheran per Milano via Francoforte

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